Note Biografiche A "Una Dissertazione Sulla Natura Della Causalità, Con Aeroplani" Di Benjamin Rosenbaum

di Benjamin Rosenbaum, tradotto da Francesco Lato per Robot

Al mio ritorno dal Plaus-Fab Wisconsin (una deliziosa rassegna di arte e filosofia che si autodefinisce "l'Unica Convention Mondiale Femminista di Plausibilfavole") a bordo della P.R.G.B. Sri George Bernard Shaw, mi capitò di dividere lo scompartimento con Prem Ramasson, ragià di Estrema Thule, e la sua consorte, una donna bella ma austera il cui nome mi era ignoto.

Due grossi barbari biondi vestiti della livrea con le insegne di Estrema Thule (un elefante a cavalcioni di un iceberg e un vulcano) sostavano fuori dell'ingresso, armati di sciabole e sparafrecce. Chiesero educatamente di potermi perquisire e poi mi lasciarono entrare. Ignorarono il corto pugnale alla mia cintura, presumibilmente giudicando che la loro perizia nelle arti cavalleresche fosse più che sufficiente a eguagliare la mia.

Presi posto sul divano ricamato. "Buonasera", dissi.

Il ragià fece balenare i denti bianchi in un sorriso e accennò un saluto col capo. La sua consorte scostò un lembo di velo blu dalle labbra e tornò a guardare fuori dell'oblò.

Tirai fuori quaderno, penna, e calamaio dalla valigia, posi il calamaio nell'apposito foro nella tavola di pino bianco appesa al muro, e sciolsi le cordicelle che legavano il quaderno. Il calamaio si accese di un debole bagliore blu.

Il ragià rimescolava un mazzo di Carte della Saggezza, fermandosi ogni tanto a osservare le figure dai colori brillanti, poi mi guardò. "Lei è Benjamin Rosenbaum, il plausibilfavolista," disse infine.

Chinai il capo con un cenno compassato. "Uno pseudonimo, naturalmente" dissi.

"Tratto dalla Primula Rossa?" chiese, inarcando il sopracciglio per la curiosità.

"Il mio signore è molto acuto", dissi gentilmente.

Il ragià rise, indicando con un cenno le Carte della Saggezza. "Non è certo il personaggio più eroico o più gradevole di quel libro."

"In effetti no, mio signore", dissi con educato riserbo. "Il nome è scelto ironicamente. Una specie di sfida a me stesso, se vogliamo. Portare il nome di una nota macchietta antiebraica mi obbliga a essere molto più audace e sottile nei miei sforzi letterari."

"Lei è un caraita, dunque?" chiese.

"Comunque sia, sono ebreo," risposi. "Se non proprio un seguace ortodosso della tradizionale, disperata religione del mio popolo."

Gli occhi del principe brillarono d'interesse e così, a dispetto della mia riservatezza, gli illustrai le mie ricerche sull'Eresia Rabbinica fiorita brevemente in Palestina e a Babilonia all'epoca di Ashoka, e sul suo Talmud perduto.

"Affascinante," disse il ragià. "E ora torna dalla sua famiglia?"

"Sono del tutto senza affetti, mio sire" dissi, il volto che mi si adombrava di vergogna.

Scusandomi, mi immersi di nuovo nella scrittura, fermandomi ogni tanto per dare il tempo alle mie Formiche della Saggezza di sgambettare dal calamaio, saggiare l'inchiostro con le antenne, e memorizzare il tutto per la revisione finale. Al Plaus-Fab Wisconsin, mi era stato assegnato l'incarico di costruire una plausibilfavola su un mondo senza zeppelin; ero intento a immaginare un trasporto aereo alternativo per i miei personaggi, quando il Principe parlò di nuovo.

"Io sono un appassionato di plausibilfavole", disse. "Ho altamente apprezzato il suo La Goccia."

"Grazie, Altezza."

"E ora, scrive un'altra fantasia di grande respiro?"

"Mi cimento in una storia-ombra".

Il principe rise allegro. La sua consorte si era sistemata contro la paratia e si era addormentata, la mussola blu del velo a offuscarle i lineamenti. "Adoro le storie-ombra", disse.

"La maggior parte delle storie-ombra procedono secondo la logica del sogno, sono piene di strani echi e riflessi distorti del nostro mondo", dissi. "Io sperimento una nuova forma dove un unico punto di divergenza nella storia conduce a una nuova catena causale di eventi, e quindi a un presente diverso."

"Ma il mondo è un sogno", egli disse con enfasi. "La sua idea sa tanto di materialismo democriteo. È come se gli eventi del mondo fossero prodotti puramente da cause e effetti lineari, in base alla più semplice delle Cinque Forme della causalità."

"Infatti."

"Che idea bizzarra!" esclamò.

Mi accinsi a tornare al mio lavoro, ma il principe batté tre volte le mani. Dal suo bagaglio, si dispiegò un Servo della Saggezza dall'aspetto di uccello, che avanzò lesto sul pavimento. Completamente dispiegato, era alto tre cubiti, con una testa trapezoidale e fiammeggianti occhi azzurri. Il Servo prese un servizio da tè in argento da una nicchia nella parete, mise il carrello sul tavolino in mezzo a noi, e iniziò a versare.

"Svegliati, Sarasvati Sitasdottir", disse il principe alla sua consorte, accarezzandole una spalla. "Stiamo festeggiando."

Il Servo mi piazzò davanti una tazza di tè fumante. Misi il cappuccio alla penna e ricacciai le Formiche dentro il loro calamaio; tranne una che, caparbiamente, sgambettò verso il tè. "Cosa festeggiamo?" domandai.

"Lei verrà con me a Estrema Thule", rispose lui. "È un posto magico, tutto fuoco e ghiaccio, eccetto dove ci sono pascoli e pecore. Già patria di epici eroi, cugini di Rama." La sua consorte sorseggiò sonnolenta il tè. "Ho bisogno di un plausibilfavolista. Lei scriverà la storia di Thule come sarebbe potuta essere. I miei sudditi irrequieti hanno bisogno di stimoli e conforto."

"Perché io, Altezza? Non sono quel che si dice un favolista di grande rinomanza. Forse potrei aiutarla a contattare qualcuno più idoneo, Karen Disperazione Robinson, per esempio, o Howi Qomr Faukota."

"Sciocchezze," rise il ragià, "visto che non ho incontrato nessuno di loro per caso nello scompartimento di un'aeronave.

"Ma…. ," dissi, sconcertato.

"Lei parla di nuovo come un materialista! Ecco perché l'Oriente, una volta risvegliatosi, è stato in grado di conquistare l'Occidente. Noi sappiamo come interpretare il sogno che è il mondo. Venga, basta storie."

Sollevai la tazza di tè. La Formica della Saggezza randagia strisciava lungo l'orlo; le misi davanti il dito indice, in modo che potesse salirci.

Proprio allora ci fu del trambusto alla porta. Prem Ramasson mise giù la tazza di tè e si alzò. Disse qualcosa in tono ammonitorio nell'aspra lingua nordica del suo paese di adozione, qualcosa che immaginai volesse dire "andiamo ora, ragazzi, qui stiamo lavorando." La baruffa cessò e il ragià aprì la porta scorrevole dello scompartimento, una mano sull'elsa della spada. Si udì il sibilo acuto di uno sparafrecce, ed egli barcollò all'indietro, crollando tra le braccia della consorte, che lanciò un grido.

L'esile e spigoloso Servo della Saggezza strappò il dardo dal collo del suo padrone. "Veleno," disse, la voce armoniosa quanto un groviglio di flauti. "L'antidoto dev'essere in possesso dell'assassino."

Sarasvati Sitasdottir cominciò a gridare.


È vero che non avevo accettato l'offerta d'impiego di Prem Ramasson, o meglio, a lui non era parso necessario interpellarmi. È anche vero che sono un uomo di lettere, né spia né guardia del corpo. È oltremodo vero che ero disarmato, fatto salvo il pugnale cerimoniale alla cintura, che finora aveva trovato impiego solo nella spartizione di pane, formaggio e pomodori.

Così, il fatto che mi lanciassi per l'ingresso, passando sopra i corpi caduti delle guardie del principe, e inseguissi la figura in fuga dell'assassino giù per il lungo e curvo corridoio, non può essere considerato un'azione abituale o istintiva. Né, in verità, un atto meditato. Secondo la tipologia di azioni e motivazioni fissata da Sri Grigory Guptanovich Karthaganov, dobbiamo considerarla un'azione impulsivo-trasformativa: l'istante irriflessivo che cambia per sempre il corso degli eventi.

Varie cause si affollano intorno a questi istanti, come api che ritornano all'alveare con polline e informazioni e ne escono con fame e ambizione. L'attacco dell'assassino era la causa immediata. Le maniere gentili del principe, la sua passione per le plausibilfavole (e per il mio lavoro in particolare), la sua apparente comprensione per il mio popolo, gli occhi scuri della sua consorte, tutte queste erano cause scatenanti.

La causa psicologica, di sicuro, può essere ritrovata in questo nome che mi sono scelto, 'Benjamin Rosenbaum', il commerciante grasso e codardo della Primula Rossa che, colpito, non alza una mano per difendersi; proprio come noialtri, spogliati del nostro Tempio, trovammo rifugio in infinite, splendide elegie di disperazione, voltando le spalle ai rabbini e ai loro sogni di un nuovo inizio. Mi sono sempre sentito fremere di rabbia di fronte a questa passività. Forse, allora, avevo atteso per tutta la vita una simile opportunità di azione impetuosa e violenta.

La figura, vestita dalla testa ai piedi di un grigio spento identico allo scafo dell'aeronave, corse davanti a me per il corridoio deserto e scese per un portello di manutenzione aperto nel pavimento. Ci arrivai e feci una pausa per prendere fiato. Per fortuna il mio entusiasmo per lo sport preferito del mio continente, il popolare Lacrosse, mi aveva alquanto allenato per la caccia. Non mi illudevo, tuttavia, di poter sopraffare un assassino armato e addestrato. Eppure la trama del mondo mi aveva portato qui sicuramente con uno scopo. Cosa potevo fare se non seguirla?


Oltre le cause immediate, scatenanti e psicologiche, ci sono le cause fondamentali di un'azione. Esse indirizzano il modo in cui l'azione si insinua nella trama del mondo, come un'ortica nei vestiti, e sono in relazione con la cosmologia e l'epistemologia. Se il mondo è un sogno, cosa spingeva il sognatore a sognare che inseguivo l'assassino? Se il mondo è un insegnamento, cosa dovrebbe insegnare questa azione? Se il mondo è un dono, un selvaggio e irragionevole impeto di bellezza, privo di logica o scopo, come sembra a volte, allora, visto nell'insieme, deve possedere una propria armonia estetica. Allora, lo spettacolo dello schernito praticante di un'arte mezzo disprezzata (figlia bastarda di letteratura e filosofia), che si cimenta goffamente nel ruolo dell'eroe sul ponte mediano della P.R.G.B. Sri George Bernard Shaw, deve avere certamente qualche parte nel disegno, armoniosa o dissonante, tragica o comica.


Esitante, cacciai la testa giù per il portello. Sotto, una scala a spirale scendeva per un laboratorio ingombro di attrezzi. Vicino, sentivo il debole borbottio dei motori. Là, nella vela dello scafo esterno, tra le grandi nervature di alluminio della Shaw, una porta si apriva sul cielo.

Da un banco di lavoro, presi e indossai un giubbotto da aviatore, guanti morbidi di cuoio e una maschera con visiera, per proteggermi in qualche modo dalle frecce dell'assassino. Sporsi la testa fuori della porta.

Un vento intenso frustava la superficie della nave. Afferrai il cavo di un'ancora vicina e l'agganciai al giubbotto. L'assassino non era assicurato a un cavo, ma strisciava lungo una serie di appigli per mani e piedi posti sulla superficie dolcemente curva dell'aeronave. Molti cubiti davanti a lui, un piccolo aliante dai colori brillanti aderiva alla Shaw, come una libellula spiaccicata su un'anguria.

Era la prima volta che vedevo un aliante utilizzato per uno scopo pratico, spionaggio piuttosto che sport, e subito fui preso dalla brama di ritornare al mio quaderno. Alianti! In un mondo senza dirigibili, i miei eroi avrebbero viaggiato in qualche specie di alianti immensi, motorizzati! Chiaramente, sarebbero stati costretti ad atterrare ogni qualvolta il vento fosse sfavorevole.

O no? Ricordai che il mio scopo non era ridipingere a nuovo il nostro mondo, ma speculare rigorosamente secondo la logica democritea. Ogni nuova causa condurrebbe a effetti completamente nuovi, che causerebbero a loro volta conseguenze impensate. Allora, dati i differenti incentivi economici, e senza modelli imposti dall'alto a dettarne i risultati, chissà quali progressi realizzerebbe una scienza aeronautica basata sugli alianti? Speculazione entusiasmante!

Gettai giù uno sguardo e la vista di sotto mi strappò dalla mia fantasticheria:

– l'immensa panoplia dei Grandi Laghi;

– le loro acque verde scuro e increspate di onde;

– le dita di terra, di un verde più chiaro o giallo-brune, a insinuarsi in mezzo;

– sbuffi di nubi che facevano le capriole nella massa sovrastante;

– e in alto, la volta del cielo che incombeva sulle terre tribali dei Franchi e degli Athapasca.

Eravamo a una bella altezza.

"Malkat Ha-Shamayim", mormorai ad alta voce. "Cosa sto facendo?"

"Me lo stavo chiedendo anch'io", disse al mio orecchio un sonaglio di accordi e dissonanze acute, brillanti. Era la Formica della Saggezza recalcitrante, così ghiotta di tè, appollaiata ora sulla mia spalla.

"Bene," dissi brusco, "hai qualche suggerimento?"

"Le mie sorelle hanno saggiato la neurotossina che scorre nel sangue del principe", disse la Formica. "Non l'abbiamo identificata. Il suo servo l'ha tenuto in vita, finora, ma un antidoto è al di là delle nostre capacità." Fece segno verso il criminale in fuga con l'antenna delicata. "L'assassino probabilmente avrà con sé l'antidoto al veleno. Se riesci a piazzarmi addosso a lui, posso trovarlo. Poi ne trasmetterò la composizione alle mie sorelle attraverso il campo brahmanico. Forse riusciranno a sintetizzare un composto simile nel nostro calamaio."

"È una possibilità", convenni. "Ma l'assassino è già a metà strada dal suo velivolo."

"Vero," disse malinconicamente la Formica.

"Ho un'idea per arrivarci", dissi. "Ma dovrai fare alcuni calcoli."

Il cavo che mi assicurava alla Shaw era fissato alto sopra le nostre teste. Strisciai su, allontanandomi dall'aliante, fino al punto calcolato dalla Formica. Gli appigli terminarono, ma improvvisai con le lettere del nome dell'aeronave, che sporgevano a decorarne la fiancata.


Dalla cima di una R, mi lanciai in aria, premetti coi talloni contro la vele spiegata e rimbalzai, volteggiando verso l'esterno, abbrancato al cavo teso.

La Formica si rifugiò nel mio colletto poiché intorno a noi l'aria turbinava. Descrivemmo un lungo arco, dondolando oltre l'assassino sorpreso, fino all'aliante dai colori brillanti; riuscii a afferrami all'intelaiatura di alluminio.

Affondai i piedi sul sedile e rimasi lì, il cuore che batteva forte. L'aliante cigolò, ma tenne.

"Scendi," ansimai alla Formica. "Quando l'assassino raggiunge il veicolo, puoi saltare su di lui."

"Lei," disse la Formica, strisciandomi sulla spalla. "Ha tolto la maschera e, nel passare, sono stata in grado di osservarne la sorprendente somiglianza con Sarasvati Sitasdottir, la consorte del principe. È chiaramente sua sorella."

Lanciai uno sguardo verso l'assassina, i cui lunghi capelli neri erano scompigliati dal vento. Si era puntellata contro lo scafo dell'aeronave con una mano e un piede e con l'altra mano aveva puntato lo sparafrecce.

"Informazione interessante", dissi, mentre la Formica dalla mia mano strisciava dentro l'aliante. "Buona fortuna."

"A presto," disse la Formica.

Una freccia sibilò vicino alla mia guancia. Mollai l'aliante e tornai a volteggiare nella sfera cerulea.

Mentre passavo di nuovo sopra l'assassino, coprendomi la faccia coi guanti di cuoio, un dardo rimbalzò sulla mia visiera. Ancora una volta dondolai oltre la porta che dava sulla stanza degli attrezzi e verso lo scafo.

Com'era prevedibile, il mio slancio fu insufficiente a raggiungerlo. Descrissi alcune vertiginose oscillazioni di ampiezza decrescente finché, nauseato, terrorizzato, restai appeso all'estremità del cavo, ondeggiando piano in mezzo al cielo.

Per evitare altre frecce, mi protessi la nuca con le braccia, voltandomi verso il basso. Fu allora che mi accorsi della nave pirata.

Era snella, nera e lucente, concepita per la manovrabilità. Come la Shaw, aveva una batteria di vele per sfruttare i venti favorevoli e i propulsori assemblati a poppa. Ma la Shaw viaggiava su una rotta obbligata e montava un gruppo di tensori a spirale con milioni di micromolle, che gradualmente si allentavano per produrre la forza motrice. Il nuovo vascello sputava nuvole di vapore bianco; dotato di un proprio generatore, era in grado di riavvolgere le batterie di tensori mentre era in movimento. E, a differenza della Shaw, era armato: un crudele allineamento di arpioni a balestra era montato su entrambe le fiancate. Aveva ammainato le vele e sfoggiava sulla coffa due grandi lame affilate come rasoi, capaci di sbudellare una preda ricalcitrante.

Tanto sarebbe stato sufficiente per riconoscere il vascello come pirata, ma oltre a questo esponeva l'emblema universale dei pirati, parodia di Yin e Yang, ma solo Yang, dichiarazione di fedeltà al disordine: due punti neri fissi in un cerchio giallo, rotondi come occhi demoniaci e impassibili e, sotto, un semicerchio nero ammiccante di vuota e vorace bonomia.

Azzardai uno sguardo in alto in tempo per vedere l'aliante decollare dalla fiancata della Shaw. Chiunque fosse la misteriosa sorella assassina, qualunque fosse il suo scopo (simbolismo politico? vendetta personale? ambizione dinastica? follia anarchica?), era una pilota di alianti fantastica. Guadagnò quota con un unico, flessuoso loop rovesciato, riportò in assetto l'aliante, poi restò sospesa nel cielo, in attesa.


La maggior parte delle persone, si sarebbero certo interrogate sul significato di un pirata e un assassino che si manifestano nello stesso istante; che rapporto, che simbolismo, che scopo estetico o esortativo il mondo vuole esprimere in questo modo? Ma la mia mente era ancora rivolta al mio esperimento concettuale.

Immaginate che esistano solo cause meccaniche, che il mondo sia solo una serie di tessere del domino! Ogni plausibilfavolista passa lunghe ore a escogitare trame romanzesche, a immaginare connessioni di fatti, a rimescolare e a scartare gli antefatti degli eventi desiderati. Noi ci sporchiamo le mani quotidianamente con la più semplice e ritrita delle Cinque Forme. Io ora cercavo di ragionare in tal modo sulla vita.

Il pirata e l'assassino erano in combutta? Sembrava improbabile. Se l'assassino intendeva provocare un sollevamento politico, un tumulto, i pirati gli avevano sicuramente mandato a monte il tentativo. Una morte per mano pirata mentre si viaggia in terra straniera non è materia di cui sono fatte le rivoluzioni. Se l'intento era soltanto uccidere Ramasson, uno o l'altro sarebbe bastato.

Dovevo dunque dar credito al caso fortuito dell'intrusione di due nemici violenti, alla stesso tempo, nella mia finora tranquilla esistenza?

Assurdo! Eppure l'idea aveva una strana attrattiva. Se il mondo fosse una macchina cieca, coincidenze così maldestre sarebbero certo comuni!


L'assassina vide la nave pirata; ma, con ammirabile coerenza, parve risoluta a finire quello che aveva cominciato. Venne verso di me.

Estrassi il pugnale dal fodero. Credo di aver avuto, di primo impulso, la folle idea di lanciarlo, o di parare le sue frecce, sebbene non avessi l'abilità per nessuna delle due cose.

Avanzò fino a una distanza di circa quindici cubiti; da lì, le frecce sparate dalla sua balestra avevano potenza sufficiente a perforarmi gli abiti. Ora potevo vederle il volto, un collerico duplicato dagli occhi selvaggi della sua flemmatica sorella.

La nera vela spiegata della nave pirata era trenta cubiti sotto di me.

L'assassina orientò le ali dell'aliante controvento, veleggiando come un aquilone. Staccò la mano destra dalla struttura di alluminio e puntò lo sparafrecce.

Raccogliendo tutte le mie forze, colpii con la lama del pugnale il cavo che mi sosteneva.

Le mie forze, tanto per cambiare, furono drasticamente insufficienti. Il cavo emise un suono metallico, come un accordo d'arpa, ma rimase intatto, e il rinculo fece saltare il pugnale dalla mia presa.

L'assassina scoppiò a ridere e si coprì gli occhi. Sentendomi sciocco, con una mano afferrai il cavo e con l'altra lo sganciai dal giubbotto.

Poi mi lasciai andare.


Da quella volta, ho elencato in varie occasioni, con un misto di stupore e imbarazzo, i vari modi in cui sarei potuto morire. Mi sarei potuto rompere il collo, o atterrare sullo stomaco, piegarmi a V e rompermi la spina dorsale come un fuscello. Se avessi colpito una delle nervature d'alluminio del vascello, mi sarei senz'altro fracassato le ossa.

Cos'è il caso? La cosa migliore è paragonarlo al capriccio di un essere di un'altra dimensione, il sognatore del nostro sogno? Guardare al mondo come se avesse un disegno intrinseco, che si rispecchia a ogni stadio?

E se il nostro mondo sorgesse, come sosteneva Democrito, volente o nolente, dall'unione e dal rimescolarsi di infinite ottuse particelle?

Mentre pendevo dalla Shaw, decisi che il protagonista della mia storia-ombra democritea (se fossi vissuto per scriverla) sarebbe stato un uomo di lettere, un dilettante della filosofia come me, membro di una società avanzata impregnata di materialismo filosofico. L'apparente paradosso di un uomo intelligente, in un paese sofisticato, costretto a spiegare tutti gli eventi esclusivamente nell'ambito dei rapporti di causalità meccanicistica!

Coloro che oggi, con compiacimento, considerano defunta l'ipotesi materialistica, portando a esempio il campo brahmanico e le sue Creature della Saggezza e tutti i successi profetici, dalle previsioni del tempo alla storia, della Teoria delle Cinque Forme Causali, dimenticano che la questione è, in fondo, assiomatica. L'ipotesi materialistica, il primato della Materia sulla Mente, è indimostrabile. Un'altra scienza, in un'altra storia, può aver costruito chissà quali successi, sul suo baluardo.

Quindi io non posso dire, non posso!, se sia privo o meno di significato il fatto che io colpissi la vela spiegata del vascello pirata con le gambe e le natiche, fossi respinto di nuovo verso l'alto, rimbalzando e rotolando fino ad approdare contro la facciata della lama di rasoio dorsale dell'aeronave. Non posso dire se un Protettore mi abbia salvato la vita volontariamente, se uno Schema abbia avuto bisogno di me per la trama che doveva tessere, o se un Caso imprevedibile e senza regole mi abbia risparmiato, del tutto inconsapevole.


C'era un piccolo boccaporto chiuso vicino alla pinna-rasoio, il cui dorso sporgente mi offriva riparo contro l'avversario. Ammaccato ed esausto, con la testa che ancora brancolava tra teorie del caso e di fini prestabiliti, arrancai per raggiungerlo quando iniziarono i gong e le sirene dell'arrembaggio.

La Shaw sapeva di non poter mai battere in velocità né contrastare il rapido e pericoloso vascello corsaro; era immobile sulla mia testa, in attesa del saccheggio. Le navette dei pirati attaccarono, agili e maneggevoli dirigibili neri della taglia di balene assassine, con schiere di banditi del cielo armati, aggrappati alle fiancate.

L'aliante virò e si tuffò in picchiata, una macchia di blu dorato, poi cremisi, poi verde, che scomparve oltre l'orlo dello zeppelin pirata, abbandonando il nostro duello, pensai, per qualche riparo molte leghe più in basso.


Stranamente, ero triste di vederla andar via. È vero, di lei avevo conosciuto solo la violenza gratuita: mi aveva quasi ucciso e per causa sua giacevo battuto, terrorizzato e nauseato, sulla sommità di una nave corsara; e il gentile ragià, il mio quasi-datore di lavoro, probabilmente era morto. Eppure sentivo che il nostro rapporto non era ancora giunto a una conclusione soddisfacente.

Si dice che noi favolisti viviamo due vite alla volta. Anzitutto viviamo come gli altri: cercando di nutrirci e vestirci, guadagnarci il rispetto e l'affetto del prossimo, evitare i pericoli, godere e saziarci delle cose di questo mondo. Ma poi viviamo anche una seconda vita, che scalpita tra gli eventi della prima man mano che accadono, come la mercantessa di un bazar setaccia l'immondizia in cerca di tesori. Ogni dolore che soffriamo, lo analizziamo anche con un senso di eccitazione, in attesa del momento in cui ci tornerà utile; guardiamo a ogni semplice gioia con occhio critico, chiedendoci come potremmo trasformarla, levigarla, rafforzarla, per adattarla ai confini di una favola.


Il portello era chiuso. Tolsi la maschera e la visiera e giacqui sulla vela, crogiolandomi al sole del pomeriggio, nella speranza che le mie Formiche avessero avuto successo nella loro farmacopea e salvato il Principe; intanto, guardavo le navette dei pirati saccheggiare la soccombente P.R.G.B. Sri George Bernard Shaw e tornare cariche di merci preziose e, forse, di ostaggi.

Cominciavo a chiedermi se si fossero accorti di me, se avrei dovuto segnalare la mia presenza, quando la cacofonia di gong e trombe riprese più forte, insistente e rabbiosa, e le navette tornarono rapide ad ancorarsi sotto la nave pirata.

Mosso dalla curiosità, scoprii nella parete di metallo della pinna-rasoio una scala che conduceva a un posto di vedetta.

Una cittadella da guerra emergeva da un banco di nuvole ad alcune leghe di distanza.

Non avevo mai visto opera dell'uomo così vasta. Non meno di dodici grandi dirigibili, al confronto dei quali la Shaw sembrava minuscola, erano collegati tra loro in una costellazione di componenti e propulsori assemblati. Vicino al centro, un grande pennacchio di vapore bianco si levava da una colonna: un reattore Cuordisole, nel quale il minerale giallo opaco chiamato Carne di Yama è il propellente che realizza l'illuminazione, con l'ausilio della Saggezza mistica.

C'era un cannocchiale montato sul parapetto; ci sbirciai dentro, per esaminare l'aspetto di quella nuova apparizione.

Di sicuro, nessuno dei litigiosi staterelli del mio continente poteva armare un vascello del genere; e solo le grandi potenze, Catai, Gabon e il Raj Ariano, potevano permettersi di farne volare uno così lontano, anche se il Khmer e il Malay probabilmente avevano le capacità per costruirli.

C'è poco da scegliere tra l'invadenza delle grandi potenze, sebbene il Gabon abbia maggiori pretese di investire capitali nelle sue colonie e di credere nella propria missione di presunta civilizzazione. Questa nave, tuttavia, era chiaramente hindi. Ogni cubito della sua superficie era adorno di sculture in citoceramica: coppie che si univano in cinquemila pose erotiche; dèi teromorfi in atteggiamento consolatorio o minaccioso; Rama nel suo carro; eroi crivellati di frecce ma che ancora combattono; santi che subiscono il martirio. In un angolo, riconobbi l'avatar israelita di Vishnu, crocifisso tra Shiva e Ganesh.

Poi sentii mani rudi sulle spalle.

Cinque pirati erano emersi dal portello, i coltellacci spianati. Portavano abiti logori e variopinti, di varie fogge: sikh, xhosa, baltica, franca e credo azteca. Nessuno di noi parlò mentre mi conducevano per l'angusto labirinto di passerelle e scale che correva tra le paratie interna ed esterna della nave.

Ero agitato e stordito per le contusioni, la fame, e gli strascichi di un'attività faticosa e frenetica; sembrava così irreale che il giorno prima fossi ancora a festeggiare e a dibattere con i plausibilfavolisti riuniti nel Wisconsin. Mi tornò in mente che c'era stato un ballo in maschera, con i pirati come tema della serata; e le immagini dei pirati festosi e dei costumi impeccabili di ieri si mescolavano con quelle degli arcigni e sporchi catturatori di oggi, sulla lunga discesa del ponte.

Il ponte si trovava sulla navicella agganciata sotto il corpo dell'aeronave pirata, a prua del sartiame, gremito di uomini decisi e dall'aria pericolosa in pantaloni, sarong e braghe di cuoio. Consultavano le mappe e le liquide forme ardenti che nuotavano nelle Vasche della Saggezza, parlavano in tubi di bronzo posti nelle paratie, abbaiavano ordini ai mozzi che sciamavano tra i pennoni dell'aeronave.

Davanti al grande schermo che occupava la totalità della parete anteriore, intento a osservare il settore di nubi in cui ci immergevamo, stava il capitano.

Avevo sospettato di chi potesse essere la nave nel momento in cui l'avevo vista; ora ne ero sicuro. Un gigante d'uomo, vestito in pelle di daino e adorno di piume. I capelli rossi con le trecce e la barba arruffata lo proclamavano il rampollo di coloro che erano fuggiti dalla distruzione della Repubblica Vichinga d'Irlanda per stabilirsi sulle sponde del Padre-delle-Acque.

Questa nave, quindi, era la Hiawatha MacCool, e questo l'uomo che terrorizzava il commercio dalle rive del Lago Erie al confine del Texas.

"Chippewa Melko", dissi.

Lui si girò, inarcando un sopracciglio.

"Lo abbiamo trovato a fare il turista sulla pinna dorsale di dritta", disse uno dei miei catturatori.

"Davvero?" disse Melko. "Caduto dalla Shaw?"

"Saltato, in un certo senso", dissi. "La spiegazione di tutto è una storia che mette a dura prova la mia stessa credibilità, sebbene l'abbia vissuta."

Constatai malinconicamente che la mia arguzia andava sprecata con Melko, distratto com'era da alcuni urgenti affarucci militari.

Scendevamo a velocità precipitosa; l'acqua del Lago Erie apparve in lontananza di fronte a noi, riempiendo la visuale. Ogni singola onda spumosa era distinguibile sulla sua superficie.

Quando distolsi lo sguardo dalla finestra, il ponte era piombato nel buio. Tutte le Vasche della Saggezza era grigie ed esanimi.

"Tu! Spia!" abbaiò Melko. Notai con sconforto che si rivolgeva a me. "Perché ci hanno interrotto le comunicazioni?"

"Cosa?" dissi.

Il capitano pirata indicò le vasche smorte. "Quelli della Cittadella da Guerra ariana hanno interrotto il campo brahmanico con qualche maledetto aggeggio. Suppongo che l'intenzione sia di paralizzarci. È una tattica tipica di navi come la loro. Non funzionerà. E poi come si aspettano di riavere vivi i loro ostaggi, se rifiutano di parlamentare?"

"Forse intendono abbordarci e prenderseli", azzardai.

"Questo lo vedremo", disse severamente. "Ascoltate, ragazzi, ci siamo fatti il culo per evitare una trappola, ma la trappola ha trovato noi. Possiamo battere in velocità questo bastardo sfruttando le correnti ascensionali, liberandoci del peso superfluo. Dinky, corri e di' a Max di lasciare andare il generatore di vapore. Red, Alì, marcate gli arpioni a poppa, a prua e a dritta con boe e lasciateli cadere. Grig, Ngube, stessa cosa con i tensori scarichi. Presto!"

Si rivolse a me appena i suoi tirapiedi si affrettarono ai loro compiti. "Stiamo gettando fuori bordo ogni peso morto. Questo include anche te, a meno che tu non mi convinca rapidamente del contrario. Chi sei?"

"Gabriel Goodman", dissi sincero, "meglio conosciuto col mio nome d'arte, Benjamin Rosenbaum."

"Benjamin Rosenbaum?" esclamò il pirata. "Il grande poeta dello Iowa, autore di 'Verde Nudità ' e 'Versi Spezzati'? Lei è un eroe della nostra terra, signore! Non tema, io posso..."

"No," lo interruppi bruscamente. "Non quel Benjamin Rosenbaum." Il pirata diventò rosso e mostrò i denti, accigliandosi. "Aha, ci sono, l'ho sentita nominare. Lo scriba di storie per bambini, indovinato? 'Zampa, il bruco'? La risparmierò allora per amore di mio figlio Timmy che..."

"No," dissi ancora, digrignando i denti. "Sono un autore di plausibilfavole, signore, non di pittolibri."

"Mai letta quella roba", disse Melko. Ci fu una forte vibrazione, e la massa d'acciaio del generatore di vapore, in un levare di nubi bianche, cadde sotto di noi. Colpì il lago, sollevando un pennacchio di spruzzi che chiazzò di goccioline la finestra. Fu seguita dal fascio degli arpioni di prua, che si tirò dietro una cima in fondo alla quale era una boa rossa.

"Bene così", disse Melko. "Si sale."

"Lei ha parlato di ostaggi ariani ", dissi in fretta, pensando fosse conveniente menzionare la posizione che parevo aver assunto de facto, se non ancora de jure. "Si riferisce per caso al mio datore di lavoro, Prem Ramasson, e alla sua consorte?"

Melko sputò sul pavimento, provocando l'accorrere di un mozzo con una scopa. "Così sei uno di quei collaborazionisti al servizio della monarchia hindi, anche se si spartisce la terra dei tuoi padri, eh?" Avanzò minacciosamente.

"Estrema Thule è una provincia minore del Raj, signore" dissi. "È assurdo dare la colpa a Ramasson per la guerra in Texas."

Arrivò l'avviso: "Pronti a salpare, signore."

"Salpiamo allora!" ordinò Melko. "E gettate questo cane in cella col suo padrone. Se non possiamo riscattarli, li getteremo dal pennone." Mi guardò in cagnesco. "Questo ti darà tutto il tempo per metterti in pace la coscienza con le tue sottili distinzioni fra gli hindi. Cosa pensi che faccia il ragià nelle nostre terre, se non complottare coi suoi fratelli per continuare a rubare il nostro oro e il nostro elio?" Non fui in grado di proseguire oltre il mio dibattito politico con Chippewa Melko, perché i suoi accoliti mi trascinarono subito negli alloggiamenti ricavati tra lo scafo interno e quello esterno. Il principe giaceva sull'unica cuccetta, cinereo e immobile. La sua consorte era inginocchiata al suo fianco, piangendo in silenzio. Il Servo della Saggezza, privato del campo che lo animava, era crollato in un groviglio di stecche e protuberanze.

La mia valigia era lì; l'aprii e tirai fuori il calamaio. All'interno, le Formiche della Saggezza giacevano, minuscoli grumi rappresi di metallo dorato. Misi il calamaio in tasca.

"Grazie per aver tentato", disse con voce rauca Sarasvati Sitasdottir. "Ahimè, la fortuna ci ha voltato le spalle."

"Forse non tutto è perduto", dissi. "Una Cittadella da Guerra ariana insegue i pirati, e può ancora pagare il nostro riscatto; anche se, stranamente, hanno schermato il nostro campo brahmanico e così non possono sentire le offerte di trattativa dei pirati."

"Se avessero avuto l'intenzione di trattare, lo avrebbero già fatto" lei disse fiaccamente. "Bombarderanno i pirati. Non sanno che noi siamo a bordo."

"Le sfortune vengono sempre tre alla volta." È una vecchia legge empirica, derisa come superstizione dai causalisti accademici. Ma essi, come tutti gli accademici, amano rendere oscura la loro scienza, rendendola inaccessibile al profano; in verità, la vecchia massima contiene un barlume di come funziona la terza forma della causalità.

"Una morte rapida non è cattiva sorte per me", disse Sarasvati Sitasdottir. "Non ora che lui se n'è andato." Soffocò un singhiozzo e si voltò.

Sentii il polso del ragià: sotto la sua pelle ambrata c'era ancora sangue. Il viso era voltato verso la paratia di metallo, dove goccioline di umidità testimoniavano del suo ultimo respiro, non molto tempo prima. Le asciugai e gli chiusi gli occhi.

Restammo in attesa del nostro destino, qualunque fosse. Potevo sentire lo zeppelin salire rapidamente; la Hiawatha non era riscaldata, e l'aria diventava fredda. La principessa non parlava.


La mia mente tornò di nuovo alla favola che dovevo scrivere su commissione, la storia-ombra materialista di un mondo senza zeppelin.

Se per qualche improbabile opportunità fossi vissuto per finirla, decisi che avrei fatto a meno dei pericoli stravaganti, delle coincidenze ironiche, degli scoppi improvvisi di acume, delle fughe a sfidare la morte e delle bellone fatali che infestano il nostro genere e sminuiscono le sue profonde implicazioni filosofiche. Perché il protagonista deve essere sempre un predestinato, audace, solitario e orgoglioso oltre misura? No, il mio eroe-filosofo avrebbe goduto precisamente dei vantaggi di cui io ero stato privato: una famiglia felice, una situazione sicura, una nazione prospera e potente, una natura conciliante; soprattutto, un'assenza di pericolo fisico immediato. Chiaramente, sarebbero stati presenti conflitto, preoccupazione e dolore, ma, mi ripromisi, di un genere ricco e sottile!

Mi chiesi come il mio eroe avrebbe visto la catena di eventi in cui ero coinvolto. Con derisione? Con compassione? Io lo amavo, in qualche modo, poiché era la mia creatura. Lui come mi avrebbe considerato?

Se solo avesse riposto fiducia nella prima e più semplice delle forme della causalità, non si sarebbe accontentato di adagi facili come 'le sfortune vengono sempre tre alla volta.' Un assassino, più un pirata, più una Cittadella da Guerra taciturna, si sarebbe chiesto? Tutto compreso nello spazio di un'ora?

Si sarebbe limitato ad accettare le conseguenze assurde e improbabili di vivere all'interno di una macchina cieca e casuale? La sua società non sarebbe stata molto avanzata, impantanata in un fatalismo simile!

Non avrebbe ricercato con accanimento un significato, a dispetto delle limitazioni della sua struttura?

Cosa accadrebbe se la nostra cattiva sorte non fosse una mera coincidenza, si sarebbe chiesto. Se tutte e tre le sfortune avessero una sola, lineare, causa immediata, intelligibile alla ragione?


"Mia signora", dissi, "non desidero causarle ulteriori dolori. Ma credo proprio di doverlo dire. Ho visto la faccia dell'assassino del principe: era la faccia di una giovane donna, dai lineamenti molto simili ai suoi."

"Shakuntala!" esclamò la principessa. "Mia sorella! No! Non può essere! Lei non farebbe mai questo". Strinse le mani a pugno. "No!"

"Eppure" dissi con tatto, " lei non sembra trovare la mia affermazione del tutto implausibile."

"È in esilio", disse Sarasvati Sitasdottir. "È andata a raggiungere i Thane, l'Esercito Nordico di Liberazione, gli insorti anarco-femministi nel nostro paese. È tipico di lei cercare il pericolo e la gloria. Ma non ucciderebbe mai Prem! Lo ha amato prima di me!"

A questo non potei trovare risposta. La Hiawatha fu scossa da una vibrazione: da qualche parte ci si dava battaglia. Sentimmo grida e passi di corsa.

Sarasvati, il principe, i pirati, ognuno di loro disponeva di mille dèi da pregare, dèi adatti per tutte le occasioni. Avrei potuto valermi, penosamente, di un simile conforto. Ma ero stato educato come caraita. Noi riconosciamo un solo Dio, austero e magnifico; l'Unico Dio di Tutte le Cose, assistito dai Suoi angeli e dalla Sua consorte, la Regina del Cielo. L'unico modo di parlarGli, ci hanno insegnato, è nel Suo Sacro Tempio, ed esso giace in rovina ormai da duemila anni. In tempi come questi, ci dicono di meditare sul contrasto tra la Sua imperturbabile magnificenza e la nostra desolata e miserabile vulnerabilità, e di essere certi che Lui ci guarda con incommensurabile compassione, pur astenendosi dall'intervenire. Non l'ho mai trovato di grande conforto.

Rivolsi invece l'attenzione al principe, curioso di capire cosa, nel suo viso, potesse aver ispirato la passione delle due sorelle.

Sulla paratia, giusto davanti alle sue labbra, dove poco prima avevo asciugato il segno del suo ultimo respiro, c'era di nuovo un alone di condensazione.

Era l'effluvio uscito dagli organi di un cadavere in decomposizione? Mi piegai e annusai delicatamente, senza percepire alcun sentore di corruzione.

"Mia signora", dissi, indicando le goccioline sul metallo freddo, "egli vive."

"Cosa?" esclamò la principessa. "Ma come?"

"Un composto di diguanidinio prodotto da alcune dinoflagellate marine", dissi, "può indurre un coma simile alla morte, durante il quale il soggetto respira, ma solo tre volte l'ora; allo stesso modo, il battito cardiaco non è rilevabile."

Delicatamente, lei gli tastò il viso. "Può sentirci?"

"Forse."

"Perché mia sorella lo avrebbe fatto?"

"Il corpo sarebbe stato rimpatriato a Thule, giusto? Forse i rivoluzionari pensavano di rubarlo e riportarlo in vita come ostaggio."

Un tremendo scoppio di tuono scosse la Hiawatha MacCool, e mi accorsi che ci stavamo inclinando su un lato. Ci fu del trambusto nel corridoio, poi Chippewa Melko entrò. Diverse guardie erano con lui.

"Dannati testardi", sibilò. "Se vi vogliono così tanto, perché non si decidono a trattare? Siamo ancora fuori portata della Cittadella da Guerra e dei suoi cannoni, grazie a Buddha, Thor e Darwin. Abbiamo abbattuto una delle loro golette, al prezzo di molti dei miei uomini. Ma l'altra sta guadagnando terreno."

"Forse non sanno che ci sono ostaggi a bordo?" chiesi.

"E allora perché inseguirmi fin qui? Non sono stupido, so quanto gli costa portare fuori rotta quel mostro. Non lo fanno per sport, e io non mi lusingo di valere tanto per loro. No, è voi che vogliono. Perciò vi avranno. Non ho più lo stomaco per questa caccia." Accennò al principe col mento. "È morto?"

"No," dissi.

"Non si direbbe. Non importa, andiamo. Vi metto tutti su una navetta che batte bandiera bianca. La nave da guerra dovrà fermarsi a prendervi e questo ci darà il tempo che ci serve."

Fu così che ci ritrovammo nel gelido e ristretto abitacolo di una navetta pirata. Tre uomini della ciurma di Melko ci accompagnavano, uno ai comandi, gli altri due aggrappati ai fianchi della navetta. Sarasvati e io ci stringemmo sul ponte di alluminio vicino al pilota, sostenendo il corpo del principe tra di noi. Tutti e tre gli uomini di Melko avevano i paracadute: l'idea era di lanciarsi non appena ci fossimo accostati alla nave. La navetta issò la bandiera bianca di pace e lo stendardo reale di Estrema Thule, recuperato dal bagaglio del principe.

Tutti gli altri fissavano con ansia il nostro obiettivo, la goletta da combattimento della Cittadella da Guerra che saliva di quota verso di noi. Era grande quasi come la nave ammiraglia di Melko. Solo io lanciai un'occhiata dietro, fuori del portellone aperto, quando ci sganciammo dalla Hiawatha.

Così solo io vidi un aliante dai colori brillanti staccarsi dal fianco della Hiawatha e piombare a inseguirci.

Perché Shakuntala era rimasta nelle vicinanze dei pirati fino a quel momento? Visto che il piano dei ribelli per rapire il principe era stato sventato dall'arrivo di Melko, perché non limitarsi a rinunciare per attendere un'opportunità più favorevole?

A meno che l'intenzione non fosse di rapire, ma di proteggere.

"Mia signora", dissi nel mio incerto sanscrito da scuola media, "sua sorella è qui."

Sarasvati ansimò, seguendo la direzione del mio sguardo.

"Madama, suo marito è d'accordo con i ribelli."

"Come osa?" sibilò lei nella stessa lingua, ma molto più fluente.

"È l'unica…" Lottai alla ricerca del termine sanscrito per 'ipotesi', poi rinunciai al tentativo, chinandomi a bisbigliare in inglese. "Perché altrimenti i pirati e la Cittadella da Guerra sarebbero arrivati nello stesso tempo? Rifletta: la collusione del principe con i Thane è stata scoperta dal Raj Ariano. Ma un processo per tradimento avrebbe causato grande scandalo e suscitato simpatie per gli insorti. Invece, hanno fatto in modo che voci fondate su un prezioso ostaggio arrivassero a Melko. Col principe nelle mani dei pirati, la sua morte sarebbe stata semplicemente una deplorevole calamità."

I suoi occhi si spalancarono. "Che mostri!" sibilò.

"Sua sorella mirava a salvarlo, ma Melko è arrivato troppo presto, prima che la notizia della morte del principe scoraggiasse la sua banda. Mia signora, temo che se arriviamo a quella goletta, scopriranno che il Principe è vivo. Poi a noi tutti accadrà qualche incidente."

Fuori ci furono grida. Gli uomini di Melko puntarono gli sparafrecce e spararono contro l'aliante in avvicinamento.

Con un grido, Sarasvati si lanciò sul pilota, strappandogli i comandi dalle mani.

La navetta sbandò orribilmente.

Riguadagnai l'equilibrio ma andai a sbattere contro il principe. Vidi un lampo arancio e oro, l'aliante, piombarci addosso.

Lottai per rimanere in piedi. Il pilota estrasse un coltellaccio. Afferrò Sarasvati per i capelli e la trascinò via dai comandi.

In quel momento, uno degli uomini aggrappati all'esterno, trafitto dal dardo di Shakuntala, cadde restando agganciato al cavo, e una scossa agitò il pavimento sotto i nostri piedi.

Il pilota barcollò indietro, Sarasvati Sitasdottir lo colpì alla gola ed entrambi incespicarono verso il portello.

Mi lanciai in avanti. Anche l'altro pirata all'esterno, non assicurato a un cavo, cadde, e la navetta vacillò di nuovo. Sbilanciato, il velivolo descrisse una stretta curva, inclinandosi pericolosamente.

Sarasvati lottò con ferocia non comune, spingendo il pirata verso il portello aperto. Nel timore che sarebbero caduti entrambi, afferrai i comandi.

Con mio rammarico, nulla sapevo di volo sulle aeronavette i cui comandi, si dà il caso, sono di disegno straordinariamente semplice.

Vi immaginereste che l'elemento di governo principale debba essere spinto nella direzione in cui volete far andare il velivolo; invece, è proprio l'opposto. Vi aspettereste pure che questi muscolosi e grevi uomini dell'aria utilizzino comandi che si prestano a un uso ruvido; invece, sembra che sia richiesta una mano estremamente delicata.

Così, invece di stabilizzare il velivolo, ottenni il contrario.

Non solo Sarasvati e il pilota furono scagliati fuori dalla cabina, ma li seguii io stesso, riuscendo solo ad afferrare con le mani una sporgenza di metallo alla base del boccaporto. I miei piedi dondolarono liberi nel vuoto.

Guardai su, in tempo per vedere il corpo inerte del ragià scivolare verso di me come un missile.

Temo di aver esitato troppo nel decidere se scansare o afferrare il mio quasi-datore di lavoro. All'ultimo minuto il coraggio ebbe la meglio e, quando mi urtò, gli passai un braccio attorno al torace.

Così facendo persi la presa, e tutti e due cademmo dall'aeronave.

Al colmo del terrore, lasciai andare il principe, e artigliai selvaggiamente il nulla.

Andai a sbattere nel corpo del pirata rimasto appeso al cavo dell'aeronave, quello avvelenato dal dardo di Shakuntala. Gli scivolai addosso e alla fine mi afferrai ai suoi piedi.

Mentre ero lì aggrappato, tremando miseramente, vidi Prem Ramasson precipitare nel vuoto e mi maledissi per aver provocato proprio le sventure che avevo cercato di evitare, come il personaggio di una tragedia ateniese. Ma tali sventure scaturiscono da una debolezza intrinseca di quegli eroi: una hubris esemplare, una colpa schiacciante. Se ripensavo alle azioni del personaggio che io stesso ero, trovavo solo che mi ero sforzato di arrangiarmi, come potevo, in situazioni per le quali ero malamente preparato. Non è il destino di ognuno, di fronte alla vita e alle sue stravaganze?

La mia storia era davvero una farsa tragica e assurda? Il suo primo insegnamento era soltanto di ignominia e di disperazione?

O forse, come il mio protagonista-ombra avrebbe pensato, non c'era nessuna storia, nessun narratore, e i drammatici e sensazionali eventi che avevo sofferto non erano per niente parte di una storia, ma la bruta e silente realtà della Materia.

Dall'alto, Shakuntala Sitasdottir si lanciò in picchiata con l'aliante. Le ali ripiegate come fosse una lancia, in pochi secondi superò il principe. Agilmente, ridispiegò le ali dell'aliante, fece una parabola sotto il ragià cadente e, restando in volo sospeso, lo accolse tra le braccia.

Così gravata, avendo dovuto assicurarlo in qualche modo, si lanciò di nuovo in picchiata (inseguendo sua sorella, immagino) e scomparve in un banco di nubi.


Uno stormo di Gabbiani della Saggezza color ottone, provenienti dalla Cittadella da Guerra ariana, volò verso la navetta pirata. Entrarono nella cabina vuota, gettarono un'occhiata a me e al pirata avvelenato a cui ero aggrappato e si allontanarono.

Scalai il corpo per sedermi sulle sue spalle, una posizione molto più comoda. Là rimasi rabbrividendo, aggrappato al cavo.

La Hiawatha MacCool, il fumo nero che si levava da un lato, salì sempre più in alto nel cielo, seguita dalla nave da guerra ariana. Il sole tramontava, dipingendo le nubi di oro, rosa e violetto. La Cittadella da Guerra, terribile e gloriosa, continuava a navigare lentamente sotto di me, la sua ombra un'isola di tenebra nel brillio dorato del tramonto, sulle acque del lago in basso.

A est, a una certa distanza, dove il cielo già scuriva in un cobalto intenso, la goletta da guerra ariana che era riuscita a colpire Melko fu avvolta da un fuoco bianco. Dopo un po', nello scafo interno dovette aprirsi una falla, poiché il fuoco uscì, soffocato dall'elio che fuoriusciva, e lo zeppelin cadde a piombo.

Sopra di me, il propulsore ronzava, portando la navetta a girare in un cerchio sempre più stretto.

Speravo di aver salvato il principe, dopotutto. Speravo che Shakuntala avesse salvato sua sorella, e che tutti e tre avrebbero trovato rifugio dai Thane.

Il mio protagonista-ombra mi aveva fatto un dono; era la logica del suo mondo che mi aveva indotto a scoprire la minaccia della Cittadella da Guerra. Questo voleva dire che la sua filosofia era quella giusta?

Ma gli eventi che erano seguiti erano così drammatici e artefatti, proprio come mi fossi trovato in un romanzo d'appendice. Forse lui scriveva la mia storia come io scrivevo la sua; forse, dopo la vita confortevole che avevo pensato per lui, bramava perdersi in disagevoli avventure di questo genere. In questo caso, entrambi vivevamo in un mondo inventato, un mondo di storie, denso di significati.

Ma forse avevo posto male la domanda. Forse la divisione tra Mente e Materia è essa stessa illusoria; forse la Casualità, lo Schema, e il Piano sono tutte storie che raccontiamo sull'incipiente e inconoscibile mondo che riempie le tenebre oltre il cerchio sottile illuminato dalla luce della ragione. Forse è sciocco chiedere chi è il più reale, se io o il protagonista della mia storia sul mondo-senza-zeppelin. Ognuno di noi è carne, uno sciame ronzante di atomi; e ognuno di noi anche una storia contenuta nelle pagine del quaderno dell'altro. Siamo corpi. Ma siamo anche le storie che raccontiamo l'uno dell'altro. Forse basta non saperlo.

Forse la questione non è scoprire la filosofia giusta. Forse il desiderio che brucia dietro questa domanda è il desiderio di sentirsi reali. E cosa è più reale: la zolla indistinta di terra ai nostri piedi o l'eroe di una leggenda?

E forse dietro al desiderio di sentirsi reali c'è semplicemente la volontà che gli altri ci riconoscano.

Che ci tengano in considerazione.

Le prime stelle brillavano contro l'azzurro che sbiadiva. Ero nel grembo della Regina del Cielo. Le dita delle mani e dei piedi si stavano intorpidendo e presto sarebbero insorti i sintomi del congelamento. Recitai la preghiera che i vecchi rabbini eretici intonavano davanti alla morte, che comincia "Ascolta, Israele, il Signore è il Nostro Dio, il Signore è Uno."

Poi cominciai a risalire il cavo.

 

The original English text is copyright © 2004 Benjamin Rosenbaum and is under a Creative Commons License.

Originally published as "Biographical Notes to 'A Discourse on the Nature of Causality, with Air-Planes', by Benjamin Rosenbaum", in All-Star Zeppelin Adventure Stories, October 2004.
Italian translation copyright © 2006 Francesco Lato ; originally published in Robot

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